Cristina Casagrande è autrice di "Grattugina, la bambina speciale", un racconto breve che nasce da una vicenda autobiografica; come nasce il racconto e con quali intenti?
Mi sono sempre piaciute le favole e, dopo la diagnosi di celiachia e l’inizio della dieta aglutinata da parte di Eleonora, ho cercato racconti che trattassero della sua peculiarità. Non avendone trovati, ho deciso di regalargliene
uno nel quale potesse riconoscersi (le frasi di Grattugina sono in effetti frasi di mia figlia Eleonora).
Per me è stato un modo per farla riflettere sul proprio percorso e aumentarne la consapevolezza. Successivamente a quel racconto, ho scritto “Grattugina va in montagna”, disponibile unicamente in versione cartacea, con l’obiettivo di analizzare una delle tante situazioni che un bambino celiaco si trova a dover affrontare: quella dell’alimentazione in vacanza. Il mio progetto era quello di creare un racconto dichiaratamente ironico per ogni situazione “problematica” nella quale il piccolo celiaco può trovarsi. Sono convinta che sdrammatizzandola, la realtà risulti meno pesante e venga più facilmente accettata. Di recente, quando “Grattugina” ha avuto bisogno di pensare che anche le fate e le principesse possano essere celiache, le ho scritto
“Come una vera Principessa”, disponibile anche in
inglese.
Il senso di diversità causato dalla celiachia può creare serie difficoltà nel "rapporto con gli altri", specialmente in una fase delicata come quella dell'infanzia. Grattugina riesce a superare la soglia del problema per arrivare ad una consapevolezza più matura. Secondo lei, vista anche la sua esperienza diretta, cosa può fare un genitore per accompagnare il bambino al superamento di questa fase "critica"?
Innanzitutto convincersi in prima persona della necessità di attenersi ad una dieta rigorosa. Spesso si giunge alla diagnosi in seguito ad un percorso sofferto e, in questo contesto, la diagnosi può essere inizialmente vista come una liberazione. Ma non è sempre così, anche a causa della natura irreversibile di questa patologia. Occorre tenere presente che l’accettazione della dieta da parte del bambino è direttamente proporzionale al livello di accettazione del genitore. Diventa quindi fondamentale mostrarsi tranquilli, risoluti e calmi. Eventuali angosce personali vanno indagate e risolte facendo attenzione a non trasmetterle ai bambini che, come è naturale, richiedono ai genitori sicurezza e contenimento.
Spesso la prima reazione di un genitore davanti ad una "diversità" del proprio figlio è quella di creare uno strato di iperprotezione che però spesso aumenta anziché diminuire il senso di isolamento del bambino davanti al suo mondo. Del resto la celiachia e le conseguenze di una dieta non rispettata possono arrivare ad essere decisamente gravi. Qual è la via secondo lei più corretta da seguire in questo senso?
Nessuna iperprotezione, per carità; l’iperprotezione a lungo andare crea danni. Io sono assolutamente convinta che la realtà debba essere sempre mostrata per quello che è. Il non detto, il celato, l’edulcorato crea più problemi dell’espresso e i bambini sono in grado di accettare la realtà per quello che è molto meglio degli adulti. Direi che, soprattutto in una prima fase, più che un’iperprotezione è necessaria una “iperattenzione” a cause, conseguenze e circostanze: una continua indagine volta a correggere situazioni non coerenti e a prevenire l’insorgere di quelle pericolose anche dal punto di vista psicologico.
È pur sempre vero che l’errore può comunque accadere e per i più diversi motivi. Cosa fare allora? Verrebbe spontaneo farne un dramma, colpevolizzare l’autore dello sbaglio nella certezza che, una volta punito, non sbagli più. No. Meglio fermarsi un attimo a riflettere sul perché ed il come sia avvenuto. La celiachia va presa sul serio, la dieta va rispettata, ma bisogna fare la massima attenzione affinché tutto ciò non diventi un vero e proprio incubo. Quando accade l’errore, e potete star sicuri che accade a tutti, meglio analizzarne le cause per fare in modo che non succeda più. Sempre tenendo sotto controllo eventuali manifestazioni di intolleranza da parte del fisico.
La celiachia colpendo la sfera dell'alimentazione entra di riflesso in tantissime situazioni della vita quotidiana di un bambino: la mensa scolastica, la merenda con gli amici, le feste a casa, le gite. La bimba protagonista del racconto supera questi momenti grazie all'attenzione che parenti e maestre prestano al suo caso. Come ha vissuto questi momenti con la sua bambina Eleonora?
Alla diagnosi Eleonora aveva poco più di due anni e devo dire che ho pensato molto e mi sono confrontata con diverse persone per trovare il modo più facile ed indolore di trattare l’argomento. DI CERTO dovevo introdurre l’idea di una differenza: di cibo, di abitudini alimentari, eventualmente di gioco… Ma perché, è sottolineo PERCHÉ, questa differenza doveva necessariamente essere vista come una non conformità nei confronti di una normalità imperante? Perché non dare, invece, la sensazione che la differenza, che è ovvia, tangibile, concreta, anche perché con essa ci confrontiamo almeno tre volte al giorno tutti i giorni della nostra vita, è dovuta ad un nostro essere comunque individui di valore? Perché non poter dire che, avendo bisogno di una pappa “speciale” e attenzioni “speciali” (questo credo non lo possa negare nessuno), siamo anche noi individui speciali? Perché, ancora, non risarcire questi piccoli esseri “non omogenei” con l’idea di appartenere ad una categoria speciale? Non credo di aver fatto torti a nessuno se ho fatto si che mia figlia si definisse tale da subito. Per lei è stato immediatamente chiaro che doveva mangiare diversamente, ma non ha mai visto questo fatto come una “retrocessione” dalla categoria dei normali. Aveva da poco tre anni quando la maestra di religione, nell’intento di spiegare la sacralità del bambin Gesù, si avventurò a dire “Gesù non è un bambino come tutti, è un bambino speciale”. Eleonora si alzò subito in piedi e disse, tanto per precisare, “Anch’io sono speciale, sono celiaca!” Dico questo per chiarire che l’introduzione dell’appellativo “speciale" non ha nascosto la vera realtà del problema. Le ho insegnato che l’aggettivo giusto era “celiaca” proprio quando aveva tre anni. Essere “speciale” è stato per lei, ma anche per noi, un percorso, un’ottica, un mezzo: un modo per guardare la realtà tramite di esso. Se possiamo guardare una cosa in modo che ci faccia stare meno male, perché non farlo?
Dal punto di vista concreto gli unici problemi li abbiamo avuti a scuola. In prima sono accaduti fatti spiacevoli: feste a sorpresa dalle quali di fatto veniva esclusa, bambine che le correvano dietro pretendendo che assaggiasse il loro panino… Molti di questi episodi hanno cessato di esistere quando le maestre hanno trattato questa intolleranza alimentare in classe con tutti i bambini e l’hanno fatta ricadere in un ambito di SPECIALE NORMALITÀ.
Non dico che non ci saranno più problemi, ogni tanto succede ancora che qualche famiglia si dimentichi di avvertire in anticipo che ha intenzione di portare una torta a scuola (l’anno scolastico che si è appena concluso è successo due volte), ma la situazione è migliorata e, comunque, nessuno di noi può eliminare tutte quelle occasioni che creano sensazioni di inadeguatezza ai nostri figli. Possiamo, nella migliore delle ipotesi, cercare di rafforzali per renderli il più possibile in grado di fronteggiarle. Tutto qui. In effetti è questo il nostro compito.
Grattugina accetta la sua condizione di diversità grazie al fatto che nessuno attorno a lei le mostra la celiachia come un problema; a quale età questa visione dell'intolleranza al glutine deve lasciare il posto alla consapevolezza della situazione per far si che il "bambino non più bambino" sappia seguire una dieta senza glutine in piena autonomia?
Da subito. Le parole con cui descriviamo la realtà possono, anzi devono, cambiare per adattarsi alle capacità di comprensione del bambino man mano che cresce. Ma la realtà deve sempre essere presente affinché il bambino sia consapevole. Bisogna non dimenticare mai che le situazioni in cui ci veniamo a trovare possono sì essere problematiche, ma la dieta è spesso la soluzione di problemi ben più grandi.
Da ultimo vorrei fare una riflessione sul rapporto con gli altri. In qualità di genitori ed educatori, possiamo anche lavorare sul bambino/a celiaco/a in modo da raggiungere un soddisfacente grado di accettazione di sé, delle proprie esigenze e peculiarità, ma questo può non essere sufficiente se non siamo pronti a lavorare anche sugli altri. Poiché noi tutti siamo relazioni e non entità distinte, i problemi potrebbero palesarsi proprio nella socializzazione. Cito, ad esempio, l’esperienza di Eleonora: le situazioni problematiche che viveva a scuola si sono in gran parte risolte dopo l’intervento delle maestre sul gruppo classe. Ritengo sia compito della scuola, luogo che favorisce l’incontro del bambino/a con il cibo, insegnare ai bambini che gli individui sono tutti diversi e, proprio in virtù di questa diversità, sono tutti uguali. Nelle classi delle scuole d’infanzia e delle scuole primarie la diversità alimentare ha un peso considerevole e può avvenire per vari motivi che vanno da quelli etico e religiosi, a quelli medici di vario genere (compreso celiachia, diabete e fenilchetonuria). A questo proposito ho costruito un progetto di educazione alla diversità destinato alle scuole dell’infanzia e primarie: si tratta di un percorso che ha come obiettivo tutte le diverse alimentazioni che trovano spazio all’interno di una mensa scolastica e contiene testi da musicare che favoriscono la riflessione ed il confronto per arrivare ad una serena accettazione.